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Sei di Carpi se..

“La solitudine del sovversivo”

Recensione di Gisella Sillingardi • apr 09, 2021
La recensione di Gisella Sillingardi 

Il regalo per il diploma di maturità che mi fece mia madre fu un viaggio, io e lei sole, in America Latina. Un sogno divenuto realtà. L’Argentina con le sue atmosfere a metà tra la vecchia Europa e il nuovo mondo, la Bolivia con i paesaggi lunari e le persone dagli sguardi velati che masticavano le foglie di coca per resistere all’altitudine, il Perù con le meraviglie archeologiche e il folclore variopinto, l’Amazzonia che non esistono parole per descriverla, il Brasile con tutti quei sorrisi e la gioia di vivere, nonostante tutto.
Conservo ancora il diario di viaggio che scrivevo alla fine di ogni giornata o durante i lunghi tragitti in auto, bus o treno, interminabili visti con gli occhi di una ragazza nata in una città di provincia di un piccolo continente.
A quei tempi mi ero avvicinata a Amnesty International e conoscevo bene il dramma dell’Argentina. Ho sempre pensato che se fossi nata in quel posto, in quegli anni, sarebbe potuto succedere a me. Non era necessario essere guerriglieri armati, bastava essere militanti del variegato mondo montonero, che il tuo nome comparisse in un’agenda telefonica, fare volontariato nelle “villas miserias”, o semplicemente frequentare una scuola sbagliata, per sparire. Per sempre.

Ricordo bene quando scesi a Ezeiza, era da poco terminata la guerra della Falklands/Malvinas, Alfonsin era stato eletto democraticamente, ma sentii subito un nodo alla gola. 
Un paese così bello, dove noi italiani ci sentiamo un po’ a casa, bagnato con il sangue di un’intera generazione, quella nata negli anni ‘50. Mi sembrava di respirare tutto quel dolore.
Non sapevo ancora che quello che sarebbe poi diventato mio marito, in quegli anni, aveva vissuto l’adolescenza con il “toque de queda” imposto dal regime dittatoriale, era stato fermato per controlli, sdraiato a terra e perquisito, si era abituato a guardarsi continuamente attorno per paura di veder sbucare un’auto con i fari spenti. Era ancora piccolo, appena un ragazzino, ma ricorda tutto di quegli anni. Ricorda quando, appena quattordicenne, per aiutare la famiglia numerosa, era stato assunto dalle poste per consegnare in sella alla bicicletta i telegrammi con gli “habeas corpus”. Le famiglie che piangevano, tanta era la gioia di ricevere notizie dopo mesi di silenzio sulle sorti dei propri cari (significava che la detenzione era diventata legale e che erano vivi in qualche carcere ufficiale), alcune che non aprivano la porta per paura che si trattasse dei corpi paramilitari.
La storia narrata da Marco Bechis, regista di tanti film tra cui il capolavoro “Garage Olimpo”, tratta di quegli anni bui, che accomunano tante latitudini anche ai giorni nostri.

Un genocidio di stato, perpetrato con i metodi che l’uomo impiega da secoli: il terrore e la tortura.
Nel libro l’autore si mette a nudo, raccontando del suo sequestro avvenuto il 19 aprile del 1977.
Prigioniero senza identità nel carcere segreto del Club Atletico, aveva subito la più classica delle torture: la “picana”, il pungolo elettrico usato per il bestiame nei macelli. Recluso in una cella angusta, bendato, nudo, sporco e affamato alla mercé degli aguzzini, che tra una sessione e l’altra di picana ascoltavano le partite di calcio alla radio o giocavano a ping-pong. La terribile normalità del male. 
Sopravvissuto alla morte grazie al passaporto italiano e all’intercessione di industriali amici del padre (dirigente del gruppo Fiat in Sudamerica), conniventi con il regime di Videla, venne espulso dal Paese (tra gli amici ho ritrovato il nome del padre dell’ex presidente Mauricio Macri). All’imbarco sul volo dell’Alitalia che lo avrebbe riportato a Fiumicino, vestito solo con gli abiti presi da una catasta in un angolo del carcere sotterraneo e appartenuti a un altro prigioniero, senza null’altro in tasca che il passaporto per la libertà, era stato consegnato al comandante con un avvertimento: “Avete un terrorista a bordo”. Lui che non aveva mai toccato un’arma e che sognava di fare il maestro tra gli indigeni. 
Nelle pagine Bechis racconta di sé: la morte del fratellino, il girovagare tra i due continenti, gli studi, l’impegno politico in Argentina e in Italia, la vita che cambia le carte in tavola per portarti altrove da dove avevi progettato di essere, lo sradicamento da una terra che sentiva sua, l’esordio nel mondo del cinema, il documentario sulla guerra in Bosnia, gli affetti. E infine la testimonianza nel processo del 2010 a Buenos Aires, dove giustizia fu fatta, seppur tardivamente dopo anni di impunità grazie alle amnistie di stato che si erano susseguite nel tempo.
Scrivere come terapia, un modo per darsi una risposta al lacerante dilemma di tutti i sopravvissuti di ogni epoca “perché io?”. Per chi legge è una testimonianza che non può essere ignorata, soprattutto nel momento che stiamo vivendo.
Senza nulla togliere alle preoccupazioni per la salute, per l’economia, per le sorti del nostro mondo, questo tipo di lettura è necessario e dovrebbe condurre a riflessioni profonde. Siamo in una democrazia, seppure per tanti versi imperfetta, abbiamo la libertà, siamo padroni delle nostre vite. In altre parti del mondo ancora oggi non è così. Il mio pensiero va a Patrick Zaki e a tanti senza nome nelle sue condizioni, oggi.
Nelle parole di Marco Bechis ci sono tutte le storie di quei 30 mila desaparecidos, mai più tornati, sepolti in fondo al mare o in una fossa comune, senza nemmeno una tomba su cui piangerli. Tra loro tante giovani donne costrette a partorire in condizioni disumane (e solo una donna può capire cosa devono avere provato) per poi vedersi sottrarre i bambini, affidati a famiglie di militari. Tanti vivono ancora inconsapevoli al lato dei carnefici dei veri genitori, nonostante le battaglie delle abuelas (le nonne di Plaza de Mayo) per rivendicare il loro diritto a ricongiungersi con i nipoti nati in cattività e rubati alla nascita.
Un libro che conserverò tra quelli che mi hanno più segnato in tema di diritti umani: “La noche de los lapices”, “Mi chiamo Rigoberta Menchu”, “Il racconto di Peuw bambina cambogiana“, “Arcipelago Gulag” di Aleksandr Solženicyn e naturalmente Primo Levi.
Per non dimenticare, mai.
“La solitudine del sovversivo” di Marco Bechis, Guanda
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